I custodi

«Ricapitolando, possiamo dire che oggi hai vinto tu per cinque a uno. Il tuo boss sarà orgoglioso di te» sentenziò Michele, senza alzare lo sguardo dalle pagine del taccuino, su cui si era annotato gli avvenimenti della giornata.

Per non rischiare di incontrare lo sguardo tronfio di Lucio, finse di appuntarvi sopra qualcosa, ma alla fine dovette rassegnarsi a metterlo via e ad accettare la sconfitta. Gli bruciava, Dio se gli bruciava. Per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a capire come quella, che sembrava una giornata promettente, si fosse alla fine trasformata in una totale débâcle.

Lucio lo guardava e sorrideva.

«Tanto tu non hai niente da temere dal tuo a prescindere» disse, andando ad appoggiare le spalle contro la porta. Quindi, aggiunse: «Non lamentarti. Da noi ti andrebbe sicuramente peggio. Soprattutto se pensi che in fondo è stata solo colpa tua se hai perso».

Michele lo guardò stranito: non capiva, infatti, a cosa volesse alludere con tali parole.

«Che vuoi dire?» Domandò, tutto d’un fiato.

Lucio sbuffò e una folata di zolfo raggiunse le narici di Michele, facendolo starnutire.

«Hai sbagliato a calcare troppo la mano col mendicante» mugugnò Lucio.

«Spiegati meglio» lo incalzò, allora, Michele.

«È semplice: se tu non avessi esagerato nel far leva sul suo sentimento di pietà alla vista del barbone, lui non gli avrebbe dato venti euro».

Michele si mise a riflettere su quella dichiarazione, ma alla fine dovette di nuovo arrendersi:

«Continuo a non capire».

Lucio lo guardò in maniera beffarda, sogghignando, probabilmente, per tanta ingenuità.

«Ora ti spiego. Normalmente il tuo caro protetto, quando vede un senzatetto, o fa finta di nulla o gli butta giusto qualche spicciolo. Non avendo monete nel portafogli, sarebbe passato a dritto anche oggi se tu non gli avessi sussurrato un “poverino” di troppo all’orecchio. Ti immagino – sai – lì che lo spingi a riflettere sulle ingiustizie del mondo e sull’importanza di dividere la propria fortuna col prossimo».

Michele lo ascoltava attonito, cominciando a comprendere ciò cui prima Lucio aveva fatto accenno.

«Quando ha aperto il portafogli e vi ha trovato solo quella banconota, grazie a te non ha avuto dubbi e gliel’ha subito donata. Questo l’ha fatto sentire così buono… E, come tu m’insegni, la madre di tutti i peccati altri non è altri che…»

«La superbia!» Sbottò Michele, colpendosi la fronte con il palmo della mano destra. Non si capacitava di aver potuto commettere un errore simile senza neppure rendersene conto.

«Esatto. Da lì è stato facile convincerlo a essere più indulgente con se stesso per il resto della giornata e a concedersi qualche piccolo vizietto» concluse Lucio, guardando l’orologio appeso nella parete, dove poggiava la testata del letto.

Michele si avvicinò all’uomo, che adesso dormiva beato e si sentì in colpa per aver contribuito, seppur in buona fede, a corrompere un po’ la sua fragile anima. Gli carezzò con l’indice della mano destra la guancia e si ritrasse sopraffatto dal rimorso.

«Adesso però andiamo» suggerì Lucio cingendo con un braccio la vita di Michele. «Lasciamolo dormire in santa, ehm… in pace. Tanto, quando si alzerà domani mattina, noi saremo già qui. E se anche si dovesse svegliare prima, sono certo che troveremo il modo per raggiungerlo subito: non siamo forse i suoi custodi?»

Michele fece un cenno di assenso al rivale col volto e gettò un ultimo sguardo al suo protetto.

«Sì, andiamo. Ma voglio riflettere ancora su questa storia della superbia».

Lucio sbuffò ancora e accelerò il passo.

«Dai, basta per oggi. Che ne dici di una birra? Da “I Caduti” dovrebbe essere sempre aperto».

Michele starnutì di nuovo e dopo aver attraversato la parete, rispose:

«In quella bettola ci vengo solo se paghi tu! Fa sempre un caldo infernale lì».

Lucio lo guardò sorridendo e aggiunse:

«Ma come: perdi tu e pago io? E questa sarebbe la tua idea di giustizia divina?»

A quelle parole entrambi scoppiarono in una fragorosa risata, quindi spiccarono il volo e si diressero svelti alla volta del pub.

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