Sandra guardava la collega Sabrina muoversi con disinvoltura nella libreria vicino allo stabile dove lavoravano. Prendeva un libro qua e là, con ordine apparentemente causale, poi si avvicinava a lei e diceva: «Devi leggerlo è bellissimo». Oppure: «ho letto tutto di questo autore; è un genio». O ancora: «ha una recensione splendida su…». In quest’ultimo caso tirava fuori dalla borsa l’articolo strappato da un quotidiano per provarle che non mentiva.
Sandra sorrideva e aggiungeva sempre: «Appena finisco quello che sto leggendo, lo compro».
Ma non era vero. Nulla era vero. Sandra sapeva, infatti, che Sabrina andava una volta a settimana in quella libreria solo per flirtare con il titolare del negozio. Ed era per darsi arie da intellettuale e fare due chiacchiere in più con lui, che comprava vagonate di libri da leggere nelle interminabili domeniche trascorse da sola. Un po’ la invidiava, un po’ no. La invidiava per quella leggerezza di vivere, per la facilità con cui riusciva a conversare con quell’uomo di dieci anni più giovane e a credere che lui provasse davvero interesse per lei. Non la invidiava per la scarsa consapevolezza, che aveva di se stessa e della realtà.
«Hai notato come mi guarda? Se non ero impegnata, vedevi che numeri ci facevo a letto».
Sandra le faceva l’occhiolino e confermava: «Ho visto, ho visto».
In realtà pensava che il tipo se la teneva buona solo perché era la miglior cliente del negozio. E poi “impegnata”… Una donna di cinquant’anni, che dorme da sola ogni notte e che da sola trascorre due fine settimana su tre, può dirsi davvero impegnata?
«A me non mi ha degnata di uno sguardo; non aveva occhi che per te».
Sandra coccolava l’ego della collega, dicendole ciò che voleva sentirsi dire. E funzionava, dato che Sabrina ogni volta la ricambiava con un ammiccante sguardo di intesa. Non sapeva esattamente perché si comportasse così con lei, perché le mentisse. Da anni si relazionavano in quel modo, replicando sempre la stessa dinamica. Ogni tanto Sandra si chiedeva se lei e Sabrina potessero dirsi amiche. Trascorrevano insieme tutte le pause caffè e pranzo durante la settimana lavorativa e, talvolta, capitava che si trovassero la sera per un aperitivo o una pizza. Non era sicura di aver oltrepassato con lei quel sottile confine che separa l’avere un buon rapporto di lavoro dalla confidenza e intimità tipiche dell’amicizia. Si chiedeva, poi, se Sabrina l’avrebbe “accettata” nel caso in cui avesse avuto con lei un atteggiamento meno da gregaria. Tutte le volte arrivava alla conclusione che, se si faceva tutte quelle domande sul loro rapporto, era evidente che quel passo in avanti non lo avevano ancora fatto.
Sabrina prese la busta, che la commessa alla cassa le aveva porto, e salutò il libraio con un rapido gesto della mano, accompagnato da un largo sorriso. Una volta fuori dal locale, lei e Sandra continuarono a conversare sul giovane fino al momento di prendere il caffè e rientrare ciascuna nel proprio ufficio. Arrivata alla sua scrivania, Sandra si sedette con indolenza sulla poltrona di similpelle nera, a cui non si era ancora abituata. Qualcosa nella forma dei braccioli la disturbava. Forse l’altezza. La spinse, con uno scatto delle gambe, verso il piano, dove appoggiò la borsa, da cui estrasse il cellulare per vedere se c’era qualche notifica. Nello schermo del telefonino non era, però, presente nessuna segnalazione. Sandra lo sistemò accanto al computer e si mise a pensare che oramai erano già sette giorni che lei e Lorenzo non si scrivevano né si sentivano più. Tutto era successo all’improvviso e senza, almeno all’apparenza, una motivazione valida. Era bastata una parola sbagliata da parte di lui durante una chiamata a mandarla su tutte le furie e a farle pronunciare la fatidica frase «è finita». Lui le aveva risposto «hai fatto tutto da te» e aveva riagganciato il telefono. Sandra gli aveva inviato, di rimando, tre o quattro messaggi acidi, a cui lui non aveva risposto, e da allora non si erano più fatti vivi l’uno con l’altro. Decine di volte avevano litigato in quel modo, rimanendo senza parlarsi uno, due giorni al massimo. Questa volta, però, era diverso. E non solo perché era già passata un’intera settimana, senza che nessuno dei due avesse ancora deciso di fare il primo passo. Semplicemente Sandra sentiva che era così. Non si trattava di intuito: credere che tra di loro fosse finita, infatti, per quell’ultima litigata era sbagliato. Sandra sapeva che Lorenzo e lei erano arrivati fino a quel punto percorrendo insieme la stessa strada, costeggiata di errori, fraintendimenti e – soprattutto – omissioni.
Sandra riprese il cellulare in mano per controllare l’ultimo accesso su WhatsApp. Quando scorse la scritta “online” sotto al suo nome, chiuse l’applicazione sentendosi scoperta. Le sarebbe bastato probabilmente poco per sistemare le cose, come scrivere la parola “scusa” in un messaggio. Solo non intendeva farlo. Forse per orgoglio, per non essere lei a fare il primo passo, dato che era stato Lorenzo in qualche modo ad offenderla durante la telefonata in cui si erano lasciati. Forse per punirsi, per levare anche quella parentesi di gioia, che lei sentiva in cuor suo di non meritare, a una quotidianità da tempo senza più sorprese ed emozioni. Forse perché, nonostante l’amore (ammesso ci fosse davvero dell’amore tra di loro, dato che su di esso lei non si era mai soffermata troppo a riflettere né ad ascoltarsi), lei non credeva più in un futuro con lui. Sandra sospirò, quindi, profondamente, trattenendosi a stento dall’impulso di controllare ancora i movimenti di Lorenzo attraverso il telefonino, e decise di rimettersi a lavorare una volta per tutte.
Appena arrivarono le 17:30, Sandra spense il computer, si mise il giacchetto, la borsa e uscì dal suo ufficio. Fu tentata dal salutare i colleghi, che ancora lavoravano nella stanza attigua alla sua, ma, proprio un attimo prima di aprire la porta ed entrarvi, decise di proseguire verso l’ascensore. Sapeva che a nessuno importava che lei fosse o non fosse ancora a lavoro. Neppure a Sabrina. Scendendo, si controllò i capelli nella parete specchiata della cabina, e, dopo averli sistemati un po’, arrivata al piano terra, con passo fermo uscì dallo stabile. Fuori dal palazzo respirò profondamente, riempendosi i polmoni dell’aria carica di umidità tipica della stagione. Rabbrividì per il freddo e, dopo aver chiuso il colletto del giacchetto, si diresse spedita verso il parcheggio. Giunta lì, dovette concentrarsi per ricordare dove avesse lasciato la macchina la mattina. Le ci volle quasi un minuto a rammentarsene, durante il quale goccioline di sudore le si formarono lungo tutta la colonna vertebrale. Raggiunto poi il veicolo, rimase ferma, seduta sul sedile, un paio di minuti prima di decidersi a partire. Giusto il tempo di rilassarsi un po’ e controllare un’altra volta il cellulare.
Una volta entrata a casa, si sorprese del non essersi accorta di come vi fosse arrivata. Le capitava sempre più spesso di guidare come in trance e di arrivare a destinazione quasi inconsapevolmente. Questo pensiero le procurò un ulteriore brivido di terrore, che la scosse da capo a piedi e le fece ringraziare la sorte, che anche quel giorno l’aveva risparmiata da un incidente. Girata la chiave della porta per chiuderla, si senti avvolgere dalla rassicurante penombra della sala. Dopo aver appoggiato borsa e giacchetto sul tavolo, accese l’applique, ne regolò la luminosità e, dopo essersi avvolta in un plaid, si sdraiò sopra al divano e si addormentò all’istante. Il telefono stretto tra le mani.
Fu destata verso le 19:45 dal rumore fatto dal marito, Roberto, rientrato a casa dal lavoro. Si stropicciò gli occhi e, dopo essersi liberata dalla coperta, si mise a sedere sul divano e lo salutò: «Ciao. Com’è andata oggi?»
Roberto le sedette accanto, le appoggiò una mano su un ginocchio e le sorrise: «Tutto bene. E a te?»
Lei lo guardò assente, prima di rispondergli un poco convinto, seppur vero, «normale».
«Cosa c’è di buono per cena?» Chiese allora lui, sempre sorridendole.
Solo in quel momento Sandra realizzò di non aver preparato nulla da mangiare e di essersi, anzi, addirittura scordata di fare la spesa prima di rientrare. Il marito, che doveva essersi accorto di tutto dalla sua espressione di smarrimento, aggiunse subito: «Giapponese?»
Sandra gli rivolse uno sguardo di gratitudine e un cenno di assenso con il capo e si rimise il giacchetto per uscire.
Arrivati al ristorante giapponese del centro commerciale vicino alla stazione, Sandra e Roberto furono fatti accomodare da una delle cameriere in un tavolino al centro della sala. Nel locale c’erano una quindicina di coperti, parte dei quali già occupata da altre coppie. Sandra si sorprese a pensare che evidentemente nessuna delle ragazze, delle donne, sedute intorno a lei aveva avuto voglia di cucinare quella sera. Ciò, anziché rassicurarla sulla normalità della sua apatia, le procurò una vaga sensazione di nausea all’idea di come fossero stereotipati tutti i comportamenti umani, nessuno escluso. Ed eccoli lei e il marito, vestiti entrambi ancora con le “divise” da lavoro, a ingozzarsi di spaghetti di soia, tempura e ravioli al vapore. Lo chiamavano giapponese quel ristorante, ma tutto là dentro sapeva di cucina cinese di quart’ordine. A partire dalla velocità del servizio, dalla tipologia di pietanze proposte nel menù, che avevano tutte lo stesso sapore, dalla fisionomia del personale del locale, che il Giappone non doveva averlo visto nemmeno in cartolina. Comunque il posto era vicino, sempre aperto ed economico e ciò quella sera le bastava.
In uno dei tavolini Sandra scorse il suo parrucchiere con a fianco una donna. Lo indicò, senza farsi vedere, al marito, e disse, a voce bassa, come se stesse parlando solo a se stessa: «Proprio oggi che non mi sono lavata i capelli. Scommetto che si vede già la ricrescita… Penserà che sono una morta di fame che lesina anche sulla cura di sé. Spero proprio non si accorga di me».
Non aveva finito la frase, che il parrucchiere le fece un cenno con la mano e le chiese, senza alzarsi dalla sedia su cui era accomodato: «Tutto okay?»
Sandra rispose, facendogli l’okay a sua volta con la mano, e si rimise frettolosamente a mangiare. Voleva solo morire in quel momento, magari proprio strozzata da un raviolo ai gamberi e verdure. Mentre il marito la guardava, divertito per il suo imbarazzo, lei cercò istintivamente di sistemarsi l’acconciatura, spostando con le dita delle ciocche di capelli dietro le orecchie. Tentativo inutile, dato che il suo parrucchiere era già tornato a occuparsi della cena e non più di lei. Trascorsi così un paio di secondi, dopo essersi accertata che lui non la guardasse più, Sandra riprese a studiare la gente nella sala, passando – come sotto a un radar – ogni tavolo. Quello del suo parrucchiere, per l’appunto. Lui era un bell’uomo, di poco più grande di lei come età. Aveva una voce acuta e modo di parlare così aggraziato, che all’inizio aveva creduto che fosse gay. Poi aveva scoperto che era sposato. Non che le due cose fossero per forza incompatibili. Così guardò meglio la signora insieme a lui per vedere che tipo fosse. Le sembrò a colpo d’occhio una donna insignificante, non particolarmente attraente. Una finta bionda coi capelli raccolti in una coda di cavallo alta. Questo la portò a riconsiderare il fatto che forse aveva avuto davvero ragione a credere che lui fosse omosessuale: una così poteva essere una copertura, infatti, e il loro un matrimonio di facciata. Oltretutto i due parlavano poco tra di loro, non si sfioravano le mani, non si sorridevano, né si guardavano mai negli occhi. Come, del resto, lei con il marito. Sandra e Roberto si erano a mala pena accorti della presenza l’uno dell’altra per tutta la durata della cena: lui aveva giocherellato tutto il tempo con il cellulare, mentre lei lo aveva trascorso a guardare le altre coppie presenti nel locale, interrogandosi su quali potessero essere le storie che si portavano dietro. Oltre ovviamente a pensare a Lorenzo. Ora lui le mancava. Le mancava in una maniera da togliere il fiato, da morire, da scoppiare in lacrime da un momento all’altro. Solo che Sandra sapeva di non poterlo fare. Doveva cercare di andare avanti come se nulla fosse, come se nulla fosse mai stato, e non soltanto per salvare le apparenze con il marito, ma soprattutto perché sapeva che era l’unica cosa dignitosa che le restava da fare.
Finito di cenare, Sandra aspettò che Roberto pagasse il conto, salutò il suo parrucchiere e uscì dal ristorante. Tutti i negozi del centro commerciale erano chiusi e non restava altro da fare che tornare a casa. Una volta fuori dal centro, Sandra e il marito si diressero verso il piazzale, dove avevano lasciato la macchina, senza mai parlare, senza mai toccarsi: lui sempre con il cellulare in mano e lei che si sforzava di non prendere il suo. Dopo un paio di minuti che erano partiti, Sandra sentì una forte fitta all’addome. “Colpa del cibo spazzatura, che abbiamo mangiato in questo cazzo di ristorante”, pensò. Ma sapeva che non era per quello che adesso stava male. La colpa di quella sgradevole sensazione andava ricercata altrove, come ad esempio in quella giornata tutta da dimenticare, uguale a mille altre che aveva vissuto e ad altrettante che le restavano ancora da affrontare. In quella giornata fatta così, di bugie, solitudine, indolenza e dolore. Cibo spazzatura in una giornata spazzatura per una donna spazzatura.
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