Quando si comincia a morire?
Non parlo del momento della nascita, condizione necessaria e sufficiente a quello della morte.
Parlo del momento in cui, terminata la fase della crescita e quella di consolidamento della maturità, si innesca la fase del declino, della malattia e dell’invecchiamento, la fase che ci condurrà, appunto, alla morte.
Quindi: quando si comincia a morire?
Me lo sono chiesto nel 2020, prima dell’inizio della pandemia. Mi sono risposta nell’agosto di quell’anno: a 46 anni, che avrei compiuto di lì a 5 giorni.
Tutto è cominciato con un nodulo nel seno destro. Non propriamente una pallina, ma un lembo di tessuto dalla consistenza strana, aliena, al tatto mobile. Buon segno, ho letto. Era di notte. Io sdraiata, supina sul letto, il seno appiattito sul costato e lui, una piccola anomalia sotto la mia mano. E, siccome non sono una che si trascura, l’indomani ho fissato subito una visita di controllo. Senza troppe ansie, perché già in passato mi era capitato che qualche nodulo si formasse durante il ciclo mestruale e ci mettesse un po’ a rientrare spontaneamente. Giusto per avere la conferma che non era nulla di maligno e tranquillizzarmi.
E quella conferma l’ho davvero avuta.
“Signora l’ecografia è a posto. Ritorni fra sei mesi per la mammografia, come da programma.”
Peccato che il dottore quel nodulo non me lo abbia palpato: ha passato l’ecografo in fretta e in fretta ha sciolto la prognosi, dichiarando che era tutto a posto. Niente di più, niente di meno di quello che volevo sentirmi dire e che mi sono fatta andar bene. Purtroppo. Per un po’ almeno.
Era gennaio 2020.
Poi è arrivato febbraio con la settimana bianca e i primi casi di COVID-19.
Marzo con lo scoppio della pandemia e il lockdown.
Aprile con la collega ricoverata per pancreatite e io che dovevo lavorare per due.
Maggio con il lavoro da casa 24 ore su 24, 7 giorni su 7, e le prime passeggiate negli scampoli della primavera.
E infine è arrivata anche l’estate, con quell’assaggio di libertà, che in autunno ci avrebbe rinchiusi tutti nuovamente a casa, e con lui sempre lì. Mestruazione dopo mestruazione.
Ci piace chiamarla sesto senso quella vocina interiore che ci avverte che qualcosa non torna, a volte intuizione. Per me è stata solo la constatazione pragmatica che non era normale che quel nodulo, che a gennaio mi avevano detto sarebbe dovuto sparire nel giro di pochi giorni, a luglio fosse ancora lì. Così prenotai una nuova ecografia e la mammografia a supporto, chiedendo espressamente – stavolta – di essere visitata da un dottore diverso.
“Dalla mammografia non si vede niente, ma il nodulo si sente bene al tatto e, anche alla luce delle immagini dell’ecografia, è opportuno fare ulteriori accertamenti e, probabilmente, prelevare un po’ di tessuto da fare analizzare.”
Altra visita e un altro dottore, con mammografia d’ingrandimento e ago-aspirato; l’unico medico che fin da subito ha sospettato della natura maligna della massa.
È buffo come in queste circostanze ci si riscopra credenti; così è stato almeno per me, che ho trascorso le notti dopo il prelievo, supplicando Dio di graziarmi.
Poi la settimana di vacanza in montagna trascorsa tutta in apnea e, infine, la diagnosi una volta rientrata a casa: carcinoma duttale al seno destro.
Il pianto.
Il compleanno, senza la forza di festeggiare.
La scelta del chirurgo.
Io che brancolo nel buio.
Altre visite, il ricovero e l’intervento.
L’esito della biopsia.
I margini close e la terapia: punture mensili per indurmi la menopausa, pasticca giornaliera antiaromatasica per cinque anni e trattamento radioterapico con boost, per via dei margini.
E via con le punture, le pasticche, la radio con le sue coordinate tatuate sul torace e sul seno, il tunnel carpale, la menopausa, le caldane, le fitte nel costato, la spalla meno mobile, il peso che aumenta anche se mangi sempre meno, l’osteopenia dopo due anni, i controlli ogni sei mesi. E ancora il pianto e la solitudine, che cerchi, perché non vuoi nessuno intorno, e che provi ogni volta che non ti senti capita, quando invece provi ad aprirti: perché anche chi è già passato da questa esperienza prima di te non ha vissuto la tua e, quindi, non può capirti davvero.
Nessuno ti prepara a tutti i “te la caverai” che ti aspettano. Anche e soprattutto da chi ci è già passato. Come si può dire, infatti, a una persona che ha appena cominciato la sua battaglia contro il cancro “te la caverai, perché io me la sono cavata”? Con che diritto? Dall’alto di quale competenza medica? E il tuo tumore diventa il pretesto per raccontarti il suo, la sua storia, il suo successo, la sua battaglia vinta che non è la tua, non ancora almeno, né – forse – lo sarà mai. E ti senti ancora più solo e arrabbiato che mai, che è un bene, perché quella rabbia ti aiuta a non piangere più e a impegnarti ad andare avanti, a conquistartelo davvero quel “te la caverai”, giorno dopo giorno.
E pian piano, visita dopo visita, è arrivato così il momento in cui ha cominciato a non farmi più male guardarmi nuda davanti allo specchio, con scritto sul corpo tutto quello che mi era capitato nella vita: la linea sottile nel pube della miomectomia del 2003; i graffi nelle mani, testimonianza del mio amore per i gatti; le cicatrici sulle ginocchia, per le troppe cadute di bicicletta da bambina; la rasoiata nel polpaccio di quando a 13 anni avevo cercato di depilarmi di nascosto da mia madre; la cicatrice nell’ascella, per l’esame dei linfonodi sentinella; e quelle intorno ai capezzoli per la quadrantectomia sul seno destro e la mastoplastica riduttiva su quello sinistro; le mani che iniziano a deformarsi per l’artrosi; i capelli grigi che ho deciso di non tingere più, perché essere giovani è diverso da sembrarlo e il mondo dell’apparenza non mi interessa più.
Adesso sono passati tre anni e mezzo, che sembrano un giorno e al contempo un secolo, e finalmente riesco a guardare avanti. Ho fatto pace col medico del gennaio 2020, perché può capitare a tutti di sbagliare un seno di marcata densità come il mio; ora so che non è facilmente leggibile.
Non mi preoccupo più come prima del mio tumore, che dovrebbe essere stato completamente rimosso tra intervento, radio e terapia ormonale, ma me ne occupo con i controlli periodici in ospedale nel reparto di radioterapia – oncologia, uno stile di vita più sano (tra attività fisica e alimentazione) e l’autopalpazione, per lo più al mattino durante la doccia o alla sera distesa sul letto.
Nessuno dei miei familiari mi chiede più nulla: né come sto, né come sono andati i controlli. Lo stesso i miei amici. I loro raffreddori sono tornati a essere più importanti della mia densità ossea, che scende da MOC a MOC. E va bene così, perché continuo a non volerne parlare con loro.
Tra una vampata di calore e l’altra, sono arrivata anche a pensare che poteva andare peggio (almeno per ora).
Lo spettro delle recidive e delle metastasi a distanza, però, è sempre lì, fermo a farmi l’occhiolino, a ricordarmi che niente è per sempre e che ogni equilibrio faticosamente raggiunto può essere spezzato con una parola, una diagnosi. È questo, se da un lato mi fa paura, dall’altro mi sprona; perché quando capisci questo, realizzi anche tutto quello che di buono ti arriva è un dono di cui bisogna essere grati e gioire. Succede che la dimensione, in cui fino a ieri vivevi, si distorce e le priorità cambiano.
E così che, quando si comincia a morire, diventa anche il momento in cui si comincia a vivere, in cui si capisce che non è mai troppo tardi per essere ancora felici e che va bene così.
[Racconto finalista al concorso letterario “RACCONTI IN CORSIA” organizzato dalla Fondazione ARCO – bando 2024]
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